Galleria d'arte: Egitto
- alessandra lavino
- 3 giorni fa
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C’è qualcosa di profondamente toccante nei viaggi condivisi con persone che sanno vedere bellezza ovunque, soprattutto quando il luogo attraversato sembra non appartenere al tempo, ma a un’altra dimensione dell’anima. Il nostro viaggio in Egitto è stato un mosaico di emozioni, storia, paesaggi e silenzi pieni di significato.

La crociera sul Nilo è stato il filo conduttore del nostro percorso, non solo geografico ma spirituale. Le acque tranquille del grande fiume scorrono come facevano millenni fa, portando con sé la memoria di un popolo che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’umanità . Navigare da Luxor ad Assuan, osservare le sponde punteggiate da palme, villaggi e templi, ci ha fatto sentire parte di un racconto eterno.
Ogni tappa era un tuffo nell’immaginario: il Tempio di Karnak, con le sue colonne ciclopiche come alberi pietrificati; la Valle dei Re, dove riposano faraoni che cercavano l’eternità . Era come se le pietre parlassero, raccontandoci i sogni di grandezza, la paura dell’oblio, la sete di immortalità di chi costruì queste meraviglie.


Durante tutto il viaggio, la mia macchina fotografica è stata la mia compagna più silenziosa. Non era solo uno strumento, ma un’estensione del mio sguardo interiore. Un terzo occhio con cui cercavo di catturare l’essenza di ciò che ci circondava: i sorrisi genuini dei bambini nei villaggi lungo il Nilo, la rugosità delle mani che lavoravano la terra, le ombre lunghe dei cammelli al tramonto.
Ogni scatto era una preghiera, un tentativo di fermare l’attimo in cui la bellezza – quella autentica, imperfetta, viva – si rivelava. Non cercavo la foto perfetta, ma quella vera. E spesso, era negli angoli trascurati, nei silenzi delle persone semplici, che il mio obiettivo trovava poesia.


Ma la vera magia, spesso, si manifestava fuori dai circuiti turistici: nei piccoli villaggi, tra case di fango e pareti dipinte con colori vivaci, dove il tempo sembra scorrere più lentamente. I bambini che correvano a piedi nudi sorridendo, le donne sedute davanti alle porte a intrecciare tappeti o pulire verdure, gli uomini che ci salutavano con la mano sul cuore. Tutto parlava di una bellezza semplice, umile, autentica.


Fuori dai templi, oltre le folle, la bellezza si mostrava con discrezione: nei villaggi lungo il Nilo, dove le case avevano muri screpolati dipinti con colori tenui e simboli antichi, e le porte rimanevano aperte come inviti. Lì, tra gli odori di pane caldo e spezie, tra i volti segnati dal sole e gli occhi profondi, la macchina fotografica non serviva per documentare, ma per ricordare chi eravamo in quel preciso momento. Ero figlia, viaggiatrice, testimone.



Quando siamo arrivate sull’altopiano di Giza, il mondo ha smesso di fare rumore. Le Piramidi erano lì, immobili da millenni, eppure vibravano di una vita antica, di presenze invisibili, di pensieri incisi nella pietra. In quel momento, guardandole al fianco di mia madre, ho sentito che il tempo non era più lineare: si piegava, si allargava, si faceva sacro.
La Piramide di Cheope, immensa, perfetta, quasi inumana nella sua precisione, non era solo una tomba: era un messaggio. Ogni blocco raccontava qualcosa di chi l’ha sollevato, di chi ha immaginato l’eternità . Non esisteva distinzione netta tra ingegno e fede, tra scienza e mistero. Gli Egizi credevano che costruendo per l’eternità , si potesse vivere per sempre. E forse, in qualche modo, avevano ragione.
C’erano sacerdoti-astronomi che leggevano le stelle, architetti-sacerdoti che tracciavano la linea sacra dell’orizzonte, e operai che scolpivano la pietra cantando inni a Ra. Ogni cosa, anche la più pratica, era intrisa di significato cosmico. Ogni ombra proiettata sulla sabbia aveva una funzione, ogni orientamento aveva un senso. Il confine tra magia e matematica non esisteva.
Poi c’era lei, la Sfinge, metà leone e metà dio. Misteriosa, solenne, silenziosa. La guardavamo e lei ci guardava. Che cos’era, un custode? Una domanda scolpita nella roccia? I suoi occhi consumati dal tempo ci sembravano ancora vivi, come se avessero visto il sorgere del mondo e stessero aspettando che qualcuno comprendesse ciò che ha dimenticato.
Insieme a mia madre, camminando intorno a questi colossi, ci domandavamo com’era la vita quando tutto questo era vivo.

Quando le processioni di sacerdoti sfilavano tra le colonne, quando le offerte venivano deposte con rispetto, quando si credeva che l’anima – il ka – potesse sopravvivere nella luce delle stelle. Abbiamo immaginato il deserto brulicante di vita, i riti, gli incensi, le preghiere sussurrate, le danze per gli dèi.
E la fotografia, anche lì, non serviva per immortalare un panorama, ma per cercare un varco. Inquadravo dettagli – una crepa, un volto scolpito, la linea d’ombra di un angolo – e speravo che il mio terzo occhio riuscisse a cogliere qualcosa di quella vita passata. Di quel misticismo che ancora aleggia nell’aria calda e secca, tra i canti del vento e il sole che batte senza tregua.
In Egitto, si capisce che la vera bellezza non è solo nelle forme grandiose, ma in ciò che evocano: una sete profonda di significato, un bisogno umano e sacro di lasciare una traccia. Le Piramidi e la Sfinge non sono monumenti. Sono ponti. Tra il cielo e la terra, tra il passato e chi sa ancora guardare.




Forse viaggiare è proprio questo: una continua ricerca di frammenti di bellezza da raccogliere lungo la strada. Alcuni li custodisci nella memoria, altri li fermi in uno scatto. L’Egitto, con la sua dualità costante – tra grandiosità e quotidianità , deserto e acqua, storia e presente – è stato una fonte inesauribile di immagini. Ogni fotografia era una domanda e una risposta, una prova che qualcosa di meraviglioso, anche solo per un istante, era esistito davvero.
Miss Ale