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Kosovo: Il destino in una tazzina di caffè

Aggiornamento: 15 gen 2024

Aprile, piove forte fino a grandinare.

Sorseggio una tazza di caldo caffè per riscaldarmi e mi lascio trasportare dalla lettura come balsamo per la mente.

Ne approfitto per scorrere vecchi ricordi dei miei viaggi e mi accarezza l'idea di ritornarci per riabbracciare vecchi amici.


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Eppur si sa che ogni storia è un viaggio e di ricordi e storie ne ho vissute tante.


Perciò, con la tazzina fumante tra le mani, ti porto con me, nel mio piccolo villaggio, a Rahovec, in Kosovo.


Lì ci ho vissuto per un anno e ho insegnato inglese a piccoli studenti attraverso divertenti attività ludico-ricreative, cercando di trasmettere loro allegria, leggerezza e iniezioni quotidiane di gioia per crescere felici.


Ogni mattina "Il Muezzin" mi svegliava alle 5 e, le prime volte, non era propriamente piacevole ma, dopo poco tempo, ho iniziato ad apprezzare quel richiamo, come un suono dal sapore familiare che, col tempo, sarebbe diventato il suono di "casa".


Ho conosciuto tanta gente e ho appreso che i kosovari sono un popolo estremamente ospitale, così, spesso, succedeva di condividere due chiacchiere davanti ad un caffè nella loro casa, tradizionalmente e rigorosamente senza indossare le scarpe, perché è così che si usa nei paesi islamici.


Mi abituai anche a bere il loro caffè: il caffè turco.

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Così, un giorno, andai a casa della famiglia di un mio caro amico, la cui madre era una donna rivoluzionaria che vestiva in jeans e maglietta, che creava e decorava borse e vestiti.


Era una donna estremamente creativa e del tutto fuori contesto poiché, in un villaggio come quello in cui ho vissuto io, una donna così era fuori dalle regole. Tanto selvaggia ma, allo stesso tempo, fonte di grande ispirazione.


A me piaceva e, forse per questo, avevamo molto feeling.


Venne preparato il caffè, amaro per gli altri e molto zuccherato per me.


Era, appunto, una scusa per chiacchierare, vedere un’amica, stare insieme, non di certo per conoscere il proprio destino.


Ma in Kosovo le signore di una certa età usavano leggere i fondi delle tazzine per “prevedere il futuro”.


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E questo fu un rito al quale non potevo mica sottrarmi. E allora, quando terminai il mio caffè, il piattino venne appoggiato sopra la tazza e tenuto fermo, dopo tre giri completi, la tazza venne rovesciata sopra il piattino, in modo che i fondi scendessero lentamente.

Appena furono completamente colati, Irina cominciò a leggere i segni lasciati dal mio caffè.


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Mi disse cose belle che ancora ricordo.

Alcune cose sono cambiate, ma tutto ciò che disse si è poi rivelato.


Smise di leggere, appoggiò la tazza sul piattino e la riempì d’acqua, in modo che lo schema svanisse quanto prima, per far sì che nessuno altro potesse guardarci dentro.


Era il bello della lettura dei fondi di caffè: contrariamente al destino scritto da Dio o Allah, quello scritto dal caffè lo si poteva sempre lavare via.


Avvicinai la mano destra al petto, appoggiandola sulla parte del cuore, mossi leggermente la testa in segno di apprezzamento e di ringraziamento, come si fa nella cultura islamica.




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Un fascio di ricordi da un piccolo villaggio dell’Europa Orientale.


A Rahovec, in Kosovo, c’è una parte di me.

C’è una parentesi di vita.

C’è parte della mia storia.



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Con Magia

Miss Ale

 
 
 

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